Il tempo, la morte, l’amore. Queste le tematiche affrontate nella commedia Sogno d’autunno del drammaturgo (nonché poeta e romanziere) norvegese Jon Fosse. La piece, allestita dalla compagnia Zerkalo, sarà in scena fino al 23 aprile al Teatro Vascello di Roma.Sogno d’autunno, come altri lavori di Jon Fosse (in Norvegia i suoi testi sono i più rappresentati dopo Ibsen), è caratterizzato da una scrittura scarna, fredda, quasi ripetitiva in cui i silenzi comunicano molto di più delle parole. Protagonista: l’Uomo (Sergio Romano). L’ambientazione: un cimitero (molto suggestiva la scenografia di Domenico Canino), un unicum di lapidi, nomi e cumuli di terra. La scena si trasforma così in un altro personaggio rappresentando l’Umanità scomparsa che al Mondo non lascia altro che il proprio nome. La Donna amata, respinta, desiderata (Viola Graziosi) accompagna l’Uomo in  questo viaggio nell’inconscio in cui il tempo appare sia come un eterno presente che l’incrocio di più livelli (risultato di un sapiente lavoro di scrittura) in cui presente, passato e futuro non sono altro che sprazzi di una vita verso il baratro della morte.Morte che il protagonista non accetta. Come in un sogno, davanti all’Uomo appaiono d’improvviso prima la Donna poi i Genitori: è il giorno della sepoltura della nonna. La Madre (la bravissima Daniela Piperno) rimprovera il Figlio e lo accusa di essere l’unica causa del suo matrimonio fallito. L’incursione della ex-Moglie nel cimitero-scena altro non è che il colpo di grazia ad una situazione allucinata. La famiglia, ormai distrutta, si prepera alla sepoltura della nonna, alla propria sepoltura. L’Uomo cerca di aggrapparsi più che può alla vita, la Donna ammaliatrice lo incita a seguirlo verso i luoghi della memoria. Ma la morte incombe su tutto e tutti. Sul finale i salti temporali si fanno più arditi lasciando lo spettatore, come i protagonisti della commedia, in uno stato di incoscienza e oblio.Il regista Alessandro Marchìa esce “vincitore a metà” nel confronto con un testo difficile in cui la parola  è il personaggio. Solo la scenografia, le luci e i suoni riescono ad infondere nello spettatore la sensazione del sogno morente, del “tempo senza tempo”. Al contrario le scelte registiche hanno reso questi personaggi troppo corporei, tradendo lo stesso Fosse che li definisce “voci” e non “corpi”. Avremmo preferito vedere in quel cimitero solo l’essenza dell’Uomo, della Donna, della Madre: la natura del sogno è stata tradita, l’assenza si è trasformata in presenza.