Quattro donne diverse tra loro, ma legate da una colpa comune: l’infanticidio. All’interno di un ospedale psichiatrico giudiziario, trascorrono il loro tempo espiando una condanna che è soprattutto interiore: il senso di colpa per un gesto che ha vanificato le loro esistenze.
Dalla convivenza forzata, che a sua volta genera la sofferenza di leggere la propria colpa in quella dell’altra, germogliano amicizie, spezzate confessioni, un conforto mai pienamente consolatorio ma che fa apparire queste donne come colpevoli innocenti.
Clara, combattuta nell’accettare il perdono del marito, che si è ricostruito una vita in Toscana, sconta gli effetti di un’esistenza basata su un’apparente normalità. Eloisa, passionale e diretta, persiste ogni volta nel polemizzare con le altre, un cinismo solo di facciata. Rina, ragazza-madre, ha affogato la figlia nella vasca da bagno in una sorta di eutanasia. Vincenza, nonostante la fede religiosa sarà l’unica a compiere un atto definitivo contro se stessa. Ha ancora due figli, fuori, e per loro riempie pagine di lettere che non spedirà mai.
Maternity Blues, il film di Fabrizio Cattani (prodotto da IpotesICinema e Faso Film e distribuito da Fandango) ha il nome dolce di una musica lontana invece è una sindrome assassina, una depressione post partum che porta una madre ad uccidere il proprio figlio. La depressione post partum è un disturbo dell’umore sempre più preoccupante che colpisce fino al 30% delle donne immediatamente dopo il parto e si può manifestare in varie entità.
Secondo il Rapporto Eurispes Italia 2011, nel 2010 è stato compiuto un infanticidio ogni 20 giorni. Un anno prima la cadenza era di uno ogni 33 giorni e, nel 2008, di uno ogni 91. In numeri assoluti, i casi sono stati 4 nel 2008, 11 nel 2009 e 20 nel 2010. Gli psichiatri parlano spesso di “depressione post partum” ma questa diagnosi rivela non solo il sintomo di una vera e propria malattia ma anche le condizioni della maternità, di ogni maternità, dove l’amore per il figlio non è mai disgiunto dall’odio per il figlio, perché vive e si nutre del sacrificio della madre: sacrificio del suo corpo, spazio, tempo, sonno, relazioni, lavoro, affetti e anche amori, altri dall’amore per il figlio. La nostra società si ritrova incapace di accettare una verità che la psicologia e l’antropologia moderna hanno da tempo verificato: il cosiddetto istinto materno non esiste. Il testo teatrale “From Medea” di Grazia Verasani, da cui è tratta la sceneggiatura, nasce non solo come riflessione sull’istinto materno ma anche come accusa contro una società che ha sempre bisogno di creare mostri e giudicare un malessere che non andrebbe liquidato con leggerezza. Nel film non c’è traccia di giudizio nei confronti delle protagoniste, ma neppure di giustificazione e, tanto meno, di assoluzione. C’è semplicemente la fotografia delle loro vite, raccontate dal luogo dove stanno scontando la loro pena, Ospedale Psichiatrico Giudiziario, e contemporaneamente cercando di «curarsi» con il supporto di psichiatri. Rina, Vincenza, Eloisa e Clara vivano come “sospese” in un limbo dalle pareti sottili che le separa, ma al tempo stesso le protegge dal mondo reale. Un limbo difficile da varcare anche per via di quei pregiudizi e quella superficialità a cui i media ci hanno abituato.