C’è un luogo – 11.000 metri sotto il livello del mare – dove non arriva più la luce, dove l’ossigeno è quasi un miraggio e la pressione rischia di schiacciarti dall’interno. È lì che si rifugia Paula ogni notte, nel suo sogno ricorrente, nel suo incubo: metafora potente e viscerale del lutto, della colpa e della disperazione. Con La fossa delle Marianne, Eileen Byrne firma il suo debutto nel lungometraggio, e lo fa con una delicatezza sorprendente. Non un film semplice, ma un film necessario.

Due anime in viaggio verso la vita

Paula ha perso suo fratello Tim, un bambino di appena nove anni, morto annegato. Il dolore la divora, la colpa la logora. Non riesce a pensare ad altro, e nel giorno del decimo compleanno di Tim si ritrova – come magnetizzata – sulla sua tomba. È lì che incontra Helmut, anziano vedovo con la sua stessa fame di redenzione, che vuole riportare in Italia le ceneri della moglie, contro la volontà dei figli.

Così comincia il loro viaggio, improvvisato e surreale, a bordo di un camper sgangherato. Una fuga dal dolore, ma anche una corsa verso di esso. Paula e Helmut sono due facce della stessa medaglia: lei si aggrappa al ricordo del fratello con rabbia e disperazione, lui ha imparato a sopravvivere sotto la corazza della razionalità e dell’ironia. Ed è proprio nell’incontro tra questi due opposti che nasce la vera magia del film.

Il dolore non si supera: si attraversa

Byrne riesce in un’impresa rarissima: trattare temi come la morte, il lutto, la malattia mentale e il suicidio con uno sguardo che non cede mai al pietismo né alla tragedia pura. Il tono è quello della tragicommedia, un equilibrio precario ma perfettamente mantenuto. Ci sono momenti commoventi – come la confessione di Paula, o la crisi respiratoria di Helmut – e momenti surreali e teneri, come quando i due raccolgono un pollo investito e lo chiamano “Lutz”.

Il film è un susseguirsi di confessioni e silenzi, di paesaggi naturali e paesaggi interiori, di dialoghi taglienti e abbracci mancati. Byrne, anche sceneggiatrice, ammette di essersi sentita da subito vicina alla storia e si percepisce: La fossa delle Marianne è un’opera personale, vissuta, cucita addosso ai suoi protagonisti.

Un cast che brilla nei non detti

Luna Wedler è semplicemente magnetica nel ruolo di Paula: fragile ma mai passiva, dolorante ma ancora viva. Porta sullo schermo la tempesta interiore della protagonista con una naturalezza che lascia senza fiato. Edgar Selge, nei panni di Helmut, è altrettanto straordinario: un uomo spezzato che ha imparato a ridere per non frantumarsi del tutto.

La loro alchimia non è romantica, ma umana: due solitudini che si riconoscono e si accompagnano, fino all’ultimo respiro, fino all’ultima curva del viaggio.

Un road movie che sa dove andare

Il film è anche, tecnicamente, un vero road movie. Ma il viaggio esterno – dall’Austria a Trieste passando per l’Alto Adige – è solo un pretesto per raccontare il movimento più difficile: quello interiore. Paula, come ci ricorda Byrne, è in uno stato di paralisi emotiva. Muoversi diventa sopravvivere. E così ogni chilometro percorso è una piccola rinascita, ogni paesaggio una tappa dell’elaborazione del lutto.

Nonostante le difficoltà tecniche delle riprese (camper, scene in notturna, riprese in tre Paesi), Byrne riesce a farci sentire dentro questo viaggio. Lo spettatore non guarda: accompagna.

Un film da sentire, più che da capire

La fossa delle Marianne è un film che parla di assenze, ma lo fa con una pienezza narrativa e visiva rara. Ci fa sentire il vuoto, ma anche la bellezza di colmarlo – un po’ per volta – con gesti, parole, risate, erba terapeutica e sguardi complici. È una pellicola che tocca corde profonde, e non chiede spiegazioni. Chiede solo di restare lì, di respirare piano, e lasciarsi affondare. Per poi, forse, risalire.

Se volete parlarne con noi, sapete dove trovarci: davanti allo schermo, con i fazzoletti pronti!

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