Ha vinto il Gran Premio della Giuria a Cannes 2009, ben nove Premi Cesar 2010 (tra cui Miglior Film, Miglior Regia, Miglior Attore non Protagonista a Niels Arestrup, Miglior Attore a Tahar Rahim) ed è stato candidato al Premio Oscar 2010 come Miglior Film Straniero, il 19 marzo esce nelle sale italiane Il Profeta di Jacques Audiard.Condannato a sei anni di carcere, il diciannovenne Malik El Djebena (Tahar Rahim) non sa né leggere né scrivere. In prigione, Malik sembra più giovane e fragile rispetto agli altri detenuti. Preso di mira da César (Niels Arestrup), leader della gang corsa che spadroneggia nel carcere, Malik è costretto a svolgere numerose “missioni”, che però lo fortificheranno e gli meriteranno la fiducia del boss. Ma Malik è coraggioso ed impara alla svelta, e non esiterà a mettere a punto un suo piano segreto.INTERVISTA A JACQUES AUDIARDCome mai ha scelto di raccontare questa storia?
Volevamo trovare il modo di rendere Il Profeta contemporaneo, creando eroi che nessuno conosce, scritturando attori che non fossero già icone del grande schermo, come gli arabi ad esempio. In Francia si tende a rappresentarli sempre in modo realistico o sociologico. Noi invece volevamo creare un film puramente di genere, un po’ alla maniera di un western che racconta le gesta eroiche di persone comuni.
 In che modo ha trasformato Malik in un eroe?
In parte ho attinto all’immagine dell’arabo al cinema, che viene rappresentato come uno stupido – e in questo caso spesso è anche un terrorista – o semplicemente come la vittima di un contesto sociale rappresentato realisticamente.
Come spiega l’indecifrabile sorriso di Mailk al momento della sparatoria?
Malik improvvisamente ha la sensazione di trovarsi in un film e questo lo fa sentire invulnerabile come un personaggio fittizio, mentre gli altri a un certo punto giungono a un punto morto. Malik è una persona che, al posto di restare schiacciato dal peso delle sue vicissitudini, diventa sempre più leggero e gradualmente riuscirà a diventare libero.
La prigione è una metafora?
E’ evidente che i film di genere si presentano sempre come una metafora. Il personaggio viene incarcerato per servire una lunga pena, e in prigione capirà ciò che gli servirà dopo, all’esterno, arrivando pertanto a tracciare una liaison fra i due universi.
 Lei è consapevole che IL PROFETA è un film ancorato nella cultura popolare?
Si, era questa la mia intenzione. Il nostro obiettivo era fare un anti SCARFACE. Secondo me i nevrotici sono dei cretini e non possono diventare oggetti di identificazione. L’ascesa al potere di una persona assolutamente folle non mi interessa affatto.