L’arrivo in Italia de Il discorso del re, di Tom Hooper con protagonista Colin Firth, è stato preceduto dai premi che questa pellicola ha ricevuto e con molta probabilità continuerà a raccogliere. Infatti nel palmarès contiamo già cinque British Independent Film Awards, un Golden Globe per il Miglior Attore e il premio del pubblico al Toronto International Film Festival. Per non parlare delle ben dodici candidature agli Oscar 2011 (tra cui Miglior Film, Regista e Attore). Numeri che lasciano ben sperare a meno che la “notte degli Oscar” non si concludi come quella dei Golden Globe durante la quale, nonostante sette candidature, ad essere premiata è stata solo la magistrale interpretazione di Colin Firth.Ma bando ai numeri e pensiamo al film. Tom Hooper, al terzo lungometraggio, porta sul grande schermo la figura carismatica di Re Giorgio VI d’Inghilterra (Colin Firth). Il regista sceglie una prospettiva “privata” per raccontare l’uomo simbolo della resistenza inglese durante la seconda guerra mondiale. 12 maggio 1937, Albert Windsor (Bertie per la famiglia) venne incoronato Re d’Inghilterra in seguito alla scandalosa abdicazione del fratello, Re Eduardo VIII (succeduto al padre, Re Giorgio V). Ed è proprio su questo periodo cruciale, anche per la nazione (la guerra è ormai alle porte), che il film si concentra “svelando” il problema che afflisse Giorgio VI fin da bambino: la balbuzie. Un problema che, inizialmente, impedì al futuro sovrano di tenere discorsi in pubblico e alla radio, importante ed innovativo mezzo di comunicazione al popolo. Un problema che riuscì a risolvere grazie alla tenacia della moglie Elisabetta (Helena Bonham Carter), la futura Regina Madre. Infatti fu proprio lei ad organnizare un incontro con l’eccentrico logopedista Lionel Logue (il premio Oscar Geoffrey Rush). Attraverso metodi “poco ortodossi”, Lionel permise a Bertie di trovare la sua “voce”. Così il 3 settembre 1939, Re Giorgio VI tenne all’intera nazione un discorso di nove minuti in cui annunciava l’inizio del conflitto contro la Germania di Hitler. Come andò a finire lo sappiamo tutti ma questa duplice vittoria permise al re di trovare anche un vero amico, Lionel. Sulle note della Settima Sinfonia di Beethoven, Colin Firth tiene il famoso discorso alla radio, portando le lancette del tempo indietro di circa settanta anni. Vero momento clou della pellicola che vede, ancora una volta, l’attore inglese pronto per l’ambita statuetta. A distanza di un anno dall’interpretazione di A Single Man (che gli valse la Coppa Volpi al Festival di Venezia e la candidatura all’Oscar 2010), non possiamo che fare il tifo per lui. Grazie alla “spalla” Geoffrey Rush (finalmente non solo “pirata dei Caraibi”), Colin Firth pennella il “reale personaggio” alternando momenti introspettivi (l’infanzia, il difficile rapporto con il padre, l’amore per la moglie) ad altri in cui non lesina nel mostrare allo spettatore il “reale difetto”, o meglio una balbuzie da Oscar.