Nell’attesa di vederla a febbraio al Teatro Brancaccino di Roma, Agoranews ha incontrato Cloris Brosca, di scena fino al 17 dicembre con “Novembre” di Flaubert al Teatro Stanze Segrete di Roma. Prendendo spunto dal personaggio di Marie, che la Brosca sta interpretando, abbiamo parlato dell’amore e del teatro scoprendo passioni e timori di un’attrice sensibile e capace di emozionare.
Cosa l’affascina del personaggio di Marie.
Sicuramente questa maniera di mostrare e vivere l’amore senza remore e senza freni, cosa che non capita spesso perché tendiamo a schermarci per non essere feriti o per non subire il dolore del rifiuto.
Che cosa è per lei l’amore?
L’amore è forse la capacità di riconoscere che possiamo aprirci a qualcosa di diverso da noi e tendere a questo. Penso che quando siamo più giovani pensiamo all’amore in termini di essere corrisposti o no invece è già una grande forza ed energia essere innamorati, possedere questa sorgente d’amore che sbocca.
È innamorata?
Sì, sono innamorata, ma è proprio studiando questo personaggio che mi sono resa conto di quanto sia necessario aprirmi un po’ di più nei confronti dell’amore facendo cadere quel muro di remore e difese che ho innalzato. Finché siamo vivi conviene amare.
Cosa l’ha spinta a diciannove anni a lasciare Napoli per recarsi a Roma a frequentare l’Accademia Nazionale d’Arte Drammatica “Silvio D’Amico”.
Io ho confessato, e quindi riconosciuto, che volevo fare l’attrice a sedici anni. Il desiderio fin da piccola di possedere un posto protetto in cui parlare di tutto ciò che nella vita quotidiana non viene trattato e porlo cosi all’attenzione degli altri mi ha spinto ad intraprendere questa professione.
Sul palcoscenico le risulta più facile stupire o stupirsi.
Penso stupirsi. Chiunque voglia fare un lavoro di tipo artistico non può pensare di programmare tutto, non può decidere di essere prevedibile. Deve mettere insieme degli elementi che ha pensato e studiato per lasciarsi andare a qualche cosa che lo trasformi. Ed è questa trasformazione che può stupirti.
In cosa pecca il teatro oggi.
Il teatro è perdente quando cerca di diventare cinema o televisione. Diviene invece avvincente e magico quando si riappropria e valorizza le sue caratteristiche del “qua ed ora”. Il teatro deve essere messo al servizio di raccontare un sentimento, un’emozione.
Come definirebbe uno spazio come il Teatro Stanze Segrete.
La prima parola che mi viene in mente è affascinante. Questo teatro può essere una buona possibilità per proteggere dei progetti raffinati e particolari. Un’incubatrice in cui può crescere un germoglio che necessita di attenzione e di cura.
Il suo incontro prima con Eduardo De Filippo e poi con Massimo Troisi.
Ebbi la sfacciataggine di chiedere un provino ad Eduardo che mi scelse per il ruolo di Geraldina per la commedia “Il Sindaco del Rione Sanità”. Lo stesso feci con Massimo Troisi per “Ricomincio da Tre”. L’unico rammarico che mi porto dietro di queste due esperienze è che ero forse troppo giovane per rendermi conto della straordinarietà di questi due personaggi che avevano fatto della recitazione un’arte capace di raggiungere il pubblico con essenzialità.
Le dà fastidio essere identificata con il personaggio della Zingara.
Inizialmente quasi mi vergognavo a fare il personaggio della Zingara per timore di ciò che potevano pensare i miei colleghi del teatro. In seguito ho capito che adoperando la mia professionalità anche per un quiz televisivo potevo riuscire a far trasparire dal personaggio della Zingara le mie qualità di attrice.
Un personaggio che le piacerebbe interpretare.
Carmela del testo contemporaneo “Ay, Carmela!” di Carlos Suana e forse un domani Filumena Marturano.
La cosa che più la spaventa.
Cerco sempre di affrontare le mie paure. Sono però intimorita dal potere. Non possiamo lasciare agli altri la gestione per poi lamentarcene e fare le vittime innocenti e impotenti. È importante uscire allo scoperto e dichiarare come si vuole che il potere venga gestito.
Il suo motto.
“Meglio una piccola azione compiuta che una grande opera solo progettata”. Questo significa che dobbiamo uscire dall’astrazione e concederci l’umiltà di fare un piccolo passo concreto che ci avvicini realmente alla meta del progetto che possiamo anche non conoscere ma che sicuramente è dentro di noi. Un altro è “chi non risica non rosica” nel senso che bisogna osare. Questo lo dedico anche a mia madre, una donna molto intraprendente che nella sua vita ha osato molto.