170 anni fa nasceva Vincent Van Gogh, pioniere della pittura espressionista e autore di capolavori che hanno fatto la storia dell’arte. Sulla sua figura si è detto e scritto molto, soffermandosi talvolta sui suggestivi dettagli della sua produzione artistica, talvolta sui drammatici risvolti della sua vita: la fitta corrispondenza con il fratello Theo, la pennellata corposa e vibrante, la lite con l’amico Paul Gauguin, gli sbalzi d’umore, la passione per l’assenzio, l’episodio del taglio dell’orecchio e la morte prematura – forse per suicidio.
Alzi la mano che non ha pianto guardando l’episodio che gli ha dedicato la serie televisiva Doctor Who, in cui in attonito Vincent Van Gogh – artista di ben poco successo in vita – si guarda intorno in un Museo d’Orsay gremito di gente. Nessuno è profeta in patria, eppure è paradossale pensare che nel corso della sua vita Van Gogh riuscì a vendere solo una delle 864 tele da lui dipinte, mentre ad oggi è uno dei pittori più amati e apprezzati da pubblico e critica.
C’è un motivo dietro al fenomeno della contemporanea riscoperta di Van Gogh, che ha fatto sì che i suoi quadri siano ormai diventati immagini mainstream da sfoggiare su felpe, tazze e cover per il cellullare. Forse è perché quella di Van Gogh è un’arte di pancia, che si può apprezzare anche senza possedere per forza solide basi di storia dell’arte. O forse è proprio la figura – fragile e tragica – di Vincent a catturare la nostra attenzione: in una contemporaneità in cui si sta dando sempre più importanza alla salute mentale, opere come la Notte stellata e gli autoritratti sono la riprova del potere taumaturgico dell’arte, capace di esprimere un malessere e al contempo di bendarlo.