“Uso la forchetta?” Ecco la tipica domanda che fa sentire un abruzzese ancora più abruzzese. Se si è nati a L’Aquila o a Pescara, infatti, è scritto nel DNA che quel succulento spiedino di castrato si trasforma in sublime esperienza del palato attraverso tre semplici azioni: addentare-sfilare-masticare. Il discorso non è così semplice per chi viene da Bologna o da Foggia. Ed ecco sorgere spontaneo il fatidico interrogativo, la risposta al quale la si trova scritta negli sguardi ironici dei commensali “indigeni”. Stiamo parlando di uno dei piatti più rappresentativi della tradizione abruzzese, l’arrosticino, che annovera estimatori dentro e fuori regione e viene proposto come piatto principale in moltissime trattorie tipiche sparse un po’ in tutto il territorio, ma soprattutto nelle zone montane Declinato in ricetta tradizionale il “rustell’”vuole cubetti di carne di pecora o castrato di un centimetro per lato infilzati in spiedini di canna e inframmezzati da non meno del 25% di parte grassa, che assicura tenerezza e gusto alla carne magra dell’ovino. Passaggio fondamentale nel processo di preparazione è la cosiddetta frollatura, che consiste nella conservazione in celle frigorifere della carne dopo la macellazione, conservazione che può andare da un minimo di tre a un massimo di sette giorni. Per quanto riguarda la cottura, non si può non fare riferimento alla “filosofia della furnacell’”, o fornacella che dir si voglia, unica e sola maga della rosolatura perfetta dell’arrosticino. Stiamo parlando del tipico braciere allungato sul quale vengono posti in fila gli spiedini, che, irrorati di tanto in tanto da un’emulsione a base di olio, aceto, sale e pepe, cuociono col calore della brace di quercia o di carbone sottostante. Solo così si ottiene un’ottimale doratura della carne senza che si bruci lo spiedino di canna. Dunque tutto è pronto: carne buona, adeguatamente frollata, ridotta in cubetti, regolari se a macchina, irregolari se fatti a mano, come vogliono gli arrosticino-gourmet , infilzata in spiedini, brunita al calore aromatico della brace e condita con perizia e attenzione. Eccoli arrivare in tavola come un omaggio floreale al palato dei golosi, avvolti in alluminio in mazzi da venti o da trenta, fumanti e succulenti protagonisti di tante tavolate a base di vino e allegra convivialità. Non si può non menzionare quanto della tradizione pastorale abruzzese si celi dietro a questo modo ormai collaudato di gustare la carne ovina. Il sistema di tratturi che disegna il territorio regionale testimonia l’intelligente filosofia di sfruttamento delle risorse naturali e dell’avvicendarsi delle stagioni adottata dagli allevatori del passato. Chiave di lettura di questa gestione era infatti il cosiddetto allevamento transumante, grazie al quale il bestiame trascorreva i mesi estivi sulle montagne della regione per poi, all’arrivo della stagione fredda, essere trasferito al clima più mite del tavoliere delle Puglie. L’arrosticino nasce all’interno di questo contesto socio-culturale, laddove escogitò un modo per sfruttare anche parti dell’animale che venivano smerciati con maggiore difficoltà. Ecco dunque che la carne cominciò ad essere proposta e venduta sottoforma di bocconcini infilzati in spiedini,come una sorta di finger food ante litteram. E poco ci è voluto perché si passasse da un semplice piatto di riciclo ad icona del mangiare all’abruzzese: oggi, se a tavola c’è lui, ci sono anche amici, vino, calore, allegria.