Jianh Rong è uno pseudonimo. Un autore dissidente al primo romanzo che ha trovato nelle pagine de “Il Totem del lupo”, (Mondadori, 2006, euro 19,00) il coraggio di pubblicare una critica feroce alla commercializzazione a tutti i costi della Cina moderna. Anche se ambientato negli anni ’60, all’inizio della Rivoluzione Culturale, il richiamo a superare quella “mentalità del gregge” è forte anche oggi. Chen Zhen, giovane intellettuale di Pechino, viene invitato in Mongolia per diffondere tra la popolazione locale i principi del neonato regime comunista. Le steppe sono un territorio notoriamente isolato e remoto ma nulla poteva preparare Chen Zhen a quello che lo attendeva. Si troverà infatti di fronte a gente nomade e fiera, ma sopratutto poco disposta a misurarsi con interlocutori diversi dal lupo, l’eterno avversario della steppa che è al tempo stesso nemico, spirito benefico e simbolo di un’esistenza dedita sì all’aggressione ma anche alla cooperazione e all’armonia con la natura. Un libro non leggero. Il piacer di leggerlo non è legato al ritmo della trama, ma vive delle ambientazioni spettacolari, la natura, le abitudini di certe specie animali, i rapporti che ne stabiliscono equilibri e gerarchie, nonché gli usi e costumi del popolo mongolo delle praterie, in rapporto appunto alla natura, agli animali, alle stagioni, alla sopravvivenza. Vive di una profonda rabbia e tristezza per qualcosa destinato a scomparire, portato via dal vento nonostante questo sia una grande perdita per tutta l’umanità. Il lupo è l’inaspettato protagonistae imongoli figli di una cultura millenaria. Il personaggio Chen Zhen affronta il viaggio per riscoprire ancora intatti in un angolo remoto della Cina, i valori del coraggio, della libertà e del rispetto della natura. La Cina moderna sta svendendo sé stessa in nome del dio mercato: le nuove regole capovolgono equilibri ecologici e sociali, alterando anche fatti e leggende dei popoli Mongoli che andrebbero, invece, conosciuti per come sono da millenni, parte della storia dell’umanità.