Commedia degli equivoci e dell’identità divisa, la vicenda di Tonino e Zanetto ha, fin dal suo esordio nel 1747, ritrovato il favore del pubblico, mai abbandonando i lazzi e le battute, mai rinunciando allo studio dei caratteri e al virtuosismo comico. In attesa di un finale tutt’altro che convenzionale, il regista Antonio Calenda, rielabora elementi da commedia dell’arte con quelli di una più matura introspezione che costruirono nel tempo la fama dell’Autore di Venezia.  C’è il gioco del teatro – dalle commedie di Plauto alla destrezza di Terenzio –  c’è l’equivoco dei mascheramenti, dei malintesi e degli intrighi, c’è la consapevolezza di chi scrive per la scena e di chi la scena la affronta, inguaribile istrione, sera dopo sera.  SulIa scena semplice e quasi vuota, appena accennata da Pier Paolo Bisleri ma piuttosto opportunamente segnata dalle luci di Sergio Rossi ed in sintonia con i costumi, anch’essi sobri ma vivaci, di Elena Mannini – la compagnia si destreggia tra realismo e fantasia mettendo a frutto tutte le tecniche della drammaturgia settecentesca tanto mirabilmente affinate da chi è capace, scrivendo, di affidare ad un attore una parte dopo averla costruita sull’attenzione ai caratteri nonché alla psicologia di umane inclinazioni e potenzialità.