“È sdolcinato, è un film da donna! Mi verrebbe voglia di “rigettarlo” come un organo trapiantato”. Questo il commento di Lars Von Trier su Melancholia, il suo ultimo film. Una dichiarazione che può lasciare sconcertati ma se ha rilasciarla è lo stesso Von Trier allora assume tutt’altro valore. Infatti Melancholia è uno di quei pochi film capace di inghiottire lo spettatore nel vortice di suoni e immagini che scorrono davanti ai suoi occhi. Tra gli elementi che contribuiscono alla creazione di questa perfetta illusione gioca un ruolo fondamentale la scelta della colonna sonora incentrata sull’ouverture dal Tristano e Isotta di Wagner. “Una cosa è certa: partendo da uno stato d’animo (la melanconia), volevo buttarmi a capofitto negli abissi del romanticismo tedesco”. Prosegue il regista: “Wagner a mille. O forse era un modo per parlare della sconfitta”. Così le sequenze d’apertura, un connubio perfetto tra surrealismo e digitale, ci raccontano la fine: non una fine qualsiasi ma quella del mondo. Melancholia, un pianeta gigantesco il cui nome evoca appunto la “melanconia”, collide con la Terra. La musica di Wagner fa da sottofondo a questa successione di immagini oniriche e cosmiche. L’intera umanità morente è rappresentata da tre figure: una donna in abito da sposa e un’altra donna che tiene disperatamente in braccio un bambino. Su questo nucleo si svilupperà l’intero film.
Dopo le sequenze d’apertura, l’estetica del film cambia bruscamente. Melancholia è diviso in due capitoli. Nel primo ci troviamo ad un ricevimento di nozze in un magnifico castello (in Svezia). La macchina da presa, come per il resto della pellicola, è quasi sempre tenuta a mano: il realismo contrasta il romanticismo. La sposa è Justine, una ragazza depressa, spaesata che non riesce ad accettare la ritualità di una festa organizzata nei minimi dettagli dall’ordinaria sorella maggiore, Claire. Nel secondo capitolo, come in un conto alla rovescia, partecipiamo all’inevitabile fine: Claire ha perso tutta la sua sicurezza, le sue certezze mentre lo stato di depressione di Justine appare quasi come una forza che le permette con lucida freddezza di accettare l’epilogo imminenente. Ad interpretare questi due personaggi (ispirati alle due serve della pièce “Le serve” di Jean Genet) troviamo, nel ruolo di Justine, una Kirsten Dunst (inizialmente il ruolo era destinato a Penelope Cruz) tanto splendida quanto brava (sublime la scena in cui nuda si lascia “accarezzare” dalla luce di Melancholia, in una sorta di abbraccio, di attrazione profonda) nel costruire un personaggio credibile che le ha permesso di ottenere il premio come Miglior Attrice al Festival di Cannes. Mentre, ad interpretare Claire, è Charlotte Gainsbourg abile nel rendere perfettamente una donna ordinaria, benestante, attaccata alla vita e “capace di vivere” solo quando il percorso è prestabilito e non presenta ostacoli. Bravo anche Kiefer Sutherland che intrepreta il ricco marito di Claire, un personaggio razionale, fiducioso ma che dovrà scontrarsi con la dura verità.
Lars Von Trier in centotrenta minuti affronta varie tematiche: il matrimonio, un’istituzione e un rituale senza senso al quale Justine cerca di aggrapparsi, fallendo, per ritrovare una contatto con la realtà; la depressione, vista “come qualcosa di più vero”; la melanconia, che da stato d’animo diventa un valore; la fine del mondo, una liberazione dalla sofferenza della vita. Ma Melancholia parla soprattutto di solitudine, solitudine cosmica. Come dice il regista a riguardo: “Nessuno vuole rendersene conto. Continuano tutti a darsi da fare per volare sempre più lontano nello spazio, verso il fuori. Lasciate perdere! Guardate dentro!”