Male universale, intransigenza, moralismo, violenza, questi i temi affrontati da Michael Haneke regista implacabile de Il Nastro bianco nelle sale il prossimo 30 ottobre dopo la Palma d’oro vinta quest’anno a Cannes. Nella freddezza del bianco e nero, in un’atmosfera cupa, il film ( per pochi eletti) affronta il lato più buio dell’animo umano tramite una sceneggiatura perfetta e una fotografia che ricorda certi quadri di Vermeer.
Siamo tra il 1913 e il 1914 in un piccolo villaggio tedesco sconvolto da fatti inspiegabili e orrori indicibili che si materializzano in una sorta di maledizione che tocca soprattutto i bambini e gli adolescenti, vittime e carnefici di una società intrisa di bigottismo e ipocrisia. Nel clima di attesa che prende lo spettatore, ipnotizzato in un caledoiscopio di immagini forti, il racconto si colora di giallo: chi ha teso al medico (che cade da cavallo) un filo invisibile tra due alberi? E l’incendio del granaio? E chi tra gli abitanti attoniti del villagio ha torturato selvaggiamente un bambino, il figlio del barone? Stessa sorte toccherà dopo qualche giorno al figlio della levatrice, un bambino handicappato. Chi sono i colpevoli? Forse i bambini? «Diventano giustizieri perché pensano di essere la mano destra di Dio — spiega Haneke —. Coloro che devono mettere in pratica alla lettera le regole dei padri. Quando un ideale, religioso o politico, diventa principio assoluto crea disastri. E’ successo in Germania, dove quella generazione vent’anni dopo abbraccerà il nazismo, ma succede anche nel resto del mondo, dove ogni fondamentalismo crea guerre, terrorismi, sofferenza».