Ci sono film che non urlano, ma sussurrano. E in quel sussurro ci lasciano senza fiato. Solo per una notte di Maxime Rappaz è uno di questi. Un’opera prima che arriva silenziosa, quasi in punta di piedi, e si installa dentro di noi con tutta la forza di una domanda che non ha bisogno di risposta: quanta libertà siamo disposti a concedere a una donna, prima di giudicarla?

Claudine, l’anima che sfugge alle etichette

La protagonista, Claudine, interpretata con una grazia antica e un’umanità scomoda da Jeanne Balibar, è madre a tempo pieno di un figlio disabile e sarta nel proprio appartamento. Ma ogni martedì, si concede una fuga. Prende un treno e si rifugia in un hotel vicino alla diga della Grande-Dixence. Lì incontra uomini, forestieri, con cui condivide un letto e poi nient’altro. Nessun legame, nessuna attesa, nessuna spiegazione. Solo per una notte, appunto.

Sembra tutto sotto controllo, tutto incasellato in una routine che ha il sapore della resistenza e del bisogno di aria. Ma l’incontro con Michael, un ingegnere dall’anima inquieta e gentile, fa deragliare quel fragile equilibrio. Non tanto per amore, ma per la possibilità che qualcosa cambi. Che Claudine possa immaginare un’altra versione di sé, senza sentirsi in colpa.

Melodramma senza lacrime

Il film si muove con una lentezza voluta, quasi ascetica, come la vita della sua protagonista. La fotografia fredda, quasi rarefatta, ci trasporta in un 1997 lontano dai social, ma già pieno di ruoli preconfezionati. E Claudine li rifiuta tutti. Non è solo madre, non è santa, e di certo non è peccatrice. È una donna, e basta. E questo basta davvero.

Il melodramma, qui, non è fatto di gesti eclatanti o colpi di scena, ma di dettagli minimi: uno sguardo, una camminata sui tacchi troppo alti, una mano che si ritrae. Claudine non si spiega, e noi non ci aspettiamo che lo faccia. La sua libertà ci mette a disagio, ed è proprio lì che Solo per una notte trova la sua forza.

Balibar, presenza magnetica

Jeanne Balibar è semplicemente magnetica. La sua interpretazione è tutta giocata sul non detto, sul corpo che racconta ciò che le parole non possono o non vogliono esprimere. Presenza-assenza, madre e amante, custode e bugiarda. Scrive lettere finte al figlio, firmate da un padre che non esiste, perché anche l’amore ha bisogno di finzioni per sopravvivere.

E tra quelle due vite – quella dell’albergo e quella della casa – c’è un confine che solo Claudine può attraversare, senza mai giustificarsi. E noi spettatori? Non possiamo fare altro che seguirla, incantati.

Una regia che osa nell’intimità

Maxime Rappaz, al suo debutto, costruisce un film che sfida le convenzioni senza fare proclami. La geometria dei suoi spazi – tra dighe, montagne e stanze chiuse – diventa lo specchio di una donna che si muove tra dovere e desiderio, senza mai sentirsi al posto giusto, ma nemmeno fuori luogo.

È un film che non dà risposte, ma neanche le cerca. Preferisce osservare, lasciare che sia il tempo (e la lentezza) a svelare le crepe, le pieghe, le possibilità.

Solo per una notte è un film che divide, e fa bene. Perché ci costringe a guardarci allo specchio e a chiederci quanto siamo disposti ad accettare la complessità, soprattutto quando è femminile. Non è solo la storia di Claudine. È la storia di tutte le donne che scelgono una via laterale, che vivono fuori dai riflettori, che portano sulle spalle un amore così grande da non lasciare spazio a nient’altro. O forse sì.