Nella Parigi dei primi anni Novanta, il giovane Nathan decide di unirsi agli attivisti di Act Up, associazione pronta tutto pur di rompere il silenzio generale sull’epidemia di AIDS che sta mietendo innumerevoli vittime. Anche grazie a spettacolari azioni di protesta, Act Up guadagna sempre più visibilità, mentre Nathan inizia una relazione con Sean, uno dei militanti più radicali del movimento.

Accolto come un capolavoro all’ultimo Festival di Cannes, dove ha conquistato il Grand Prix, il Premio Fipresci e la Queer Palm, 120 battiti al minuto si candida a diventare uno dei grandi eventi cinematografici della stagione. “Ho amato quel film dal primo minuto sino all’ultimo – ha dichiarato commosso il presidente della giuria di Cannes, Pedro Almodóvar, dopo la premiazione – non mi sarebbe potuto piacere di più. Campillo ha raccontato storie di eroi veri che hanno salvato molte vite”.

 

L’associazione Act Up-Paris è nata il 26 giugno del 1989 in occasione dell’allora imminente parata del Gay Pride, durante la quale 15 attivisti misero in scena il primo “die-in”, restando distesi per la strada senza dire una parola. Sulle loro magliette c’era l’equazione: Silenzio=Morte. Un triangolo rosa – il marchio che veniva imposto agli omosessuali deportati nei campi durante la Seconda Guerra Mondiale, ma usato capovolto, con la punta in su – simboleggiava la loro determinazione a opporsi con tutte le forze all’epidemia che stava decimando migliaia di omosessuali. Act Up-Paris replicava il modello di Act Up-New York, nata solo due anni prima.

Le origini di Act Up sono legate alla rabbia verso l’establishment medico, politico e religioso, la cui passività e i cui pregiudizi erano alla base della gestione disastrosa dell’epidemia. La stessa rabbia spingeva chi era stato colpito dalla malattia a combattere contro il silenzio rendendosi visibile. L’obiettivo principale era infatti mostrare a tutti la malattia e i malati, smettendo di usare immagini sfocate, testimonianze anonime, rappresentazioni incorporee: come Act up-New York, Act Up-Paris ha dato voce a uomini e donne sieropositivi utilizzando una potente strategia visiva, con slogan incisivi, immagini simboliche e eventi che hanno avuto grande risonanza sui media.

In tutti questi anni i membri di Act Up-Paris hanno combattuto la guerra all’AIDS su tutti i fronti, e non solo in senso metaforico, poiché si trattava di una vera e propria resistenza a un virus che attaccava i loro corpi. Per questa guerra così complessa, occorreva riprendere il controllo delle proprie vite, occorreva cioè elaborare anche delle strategie per conquistare aree di conoscenza fino ad allora appannaggio dei soli medici. Inoltre, la società in generale andava mobilitata e istruita, le informazioni andavano organizzate. La disobbedienza civile e le azioni dimostrative condotte ai limiti della legalità erano necessarie per far sentire la propria voce, ma Act Up ha sempre rifiutato la violenza fisica. Le istituzioni avevano le armi, gli attivisti avevano i loro cartelli. E quando gli venivano tolti, avevano ancora i propri corpi, corpi in molti casi malati che la polizia a stento osava toccare.

Una delle particolarità di un gruppo come Act Up-Paris è quella di occupare degli spazi pubblici non solo con le parole, con le immagini o i cartelli, ma appunto con i propri corpi, che diventano vere e proprie armi soprattutto nei “die-in”, le manifestazioni in cui i militanti si sdraiavano a terra per rappresentare le persone morte di AIDS. La violenza simbolica di queste dimostrazioni, così come l’uso di falso sangue o sperma, o addirittura delle ceneri dei membri uccisi dalla malattia, è stata la risposta di Act Up alla violenza quotidiana del potere dell’establishment.
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